lunedì 5 maggio 2008

Autismo: la voce del silenzio

Le teorie sull'origine dell'autismo infantile sono molteplici, le più importanti sono frutto delle ricerche di quegli studiosi che hanno dedicato molti sforzi per la comprensione del problema. Margaret Mahler dedico i suoi sforzi alla comprensione dello sviluppo dei bambini entro i primi due anni di vita durante il quale molta importanza rivestono comportamenti motori i quali dovrebbero avere un'elevata qualità empatica. La Mahl pone una differenziazione tra nascita "biologica" e nascita "psicologica". Inizialmente il bambino è un essere biologico(fase dell'autismo normale) e l'investimento libidico è strettamente viscerale. In seguito si ha una fase "simbiotica", fino a circa due anni e mezzo, in cui è presente una una fusione allucinatoria di tipo onnipotente con la rappresentazione con la madre. Al termine di questo stadio si ha una fase di "separazione-individuazione che porta alla costruzione dell'identità individuale. Un cattivo funzionamento di questi stadi può indurre un blocco o una regressione a stadi precedenti. Se il bambino si fissa o regredisce allo stadio autistico, svilupperà la psicosi di tipo autistico mentre se ciò avviene allo stadio simbiotico, si verificherà una psicosi simbiotica. Nella simdrome autistica il bambino non percepisce la madre come tale ma tende ad identificare il proprio sé corporeo con gli oggetti inanimati dell'ambiente. Anche lo sviluppo linguistico risulta compromesso, essi lottano con qualsiasi richiesta di contatto umano e sociale. Tutte le psicosi infantili, secondo la Mahler, avrebbero dunque un origine in comune cioè un errore nello sviluppo dell'identità individuale,entro i primi due anni di vita.Ifattori principali sono due: 1)un bambino costituzionalmente vulnerabile con una predisposizione allo sviluppo di una psicosi; 2) una madre non in grado di reagire adeguatamente ai comportamenti del bambino. questo darebbe vita ad un circolo vizioso che comprometterebbe lo sviluppo dello stadio di separazione-individuazione.

Una delle teorie più affascinanti sull'autismo è quella di Bruno Bettelheim, uno dei maggiori psicoanalisti infantili, descritta nell'opera "La fortezza vuota". Prendendo spunto dai comportamenti schizofrenici dei prigionieri traumatizzati dalla realtà esterna , per i bambini autistici è la realtà interna a creare traumi. I bambini non sono in grado di comprendere la differenza tra la realtà interna ed esterna, vivendo l'esperienza interiore come una rappresentazione reale del mondo. L'isolamento rispetto al mondo esterno e la rassegnazione rispetto agli eventi costituirebbero vie di fuga da una realtà altrimenti insopportabile. Secondo Bettelheim ciò sarebbe determinato dall'interpretazione da parte del bambino dell'attitudine negativa con la quale gli si accostano le figure più significative del suo ambiente (1967). Il bambino proverebbe una sorta di forte rabbia che provocherebbe un'interpretazione negativa della reltà. Il neonato, cioè, interpretando negativamente i sentimenti e le azioni della madre, si distaccherebbe da lei progressivamente, provocando anche un distacco della madre da lui. Si genera così un'angoscia sconvolgente per il bambino che si trasforma presto in panico provocando l'interruzione del contatto con la realtà. Per arrivare a questo punto é necessario che il bambino percepisca la fonte dell'angoscia come immodificabile. Non esclude comunque che possano esistere altri fattori che facilitano l'insorgenza dell'autismo come alcune lesioni organiche. Oltre a cercare le cause scatenanti della patologie, Bettelheim dedicò molta parte della sua vita ad educare questi bambini; alla base del rapporto educativo c'era l'empatia cioè la condivisione delle emozioni.

Secondo alcune recenti ricerche condotte da vari studiosi l'autismo sarebbe una coseguenza derivata dal mancato sviluppo della "teoria della mente". Ognuno di noi è in grado di relazionarsi in maniera adeguata,conoscendo una persona possiamo intuire come agirà, se ne osserviame le azioni possiamo capire quali sono i suoi desideri. La teoria della mente ci aiuterebbe a capire il meccanismo psicologico delle persone alla base di una sana vita di relazione. Gli autistici quindi avrebbero un deficit specifico che riguarderebbe la comprensione della mente nelle altre persone.

sabato 3 maggio 2008

ELEGANZA

In un mondo di esasperato culto delle apparenze c’è una preoccupante scarsità di eleganza. Si tende alla retorica, alla vanità, al narcisismo, all’esagerazione – al desiderio di “far colpo” a tutti i costi. Si vuole, troppo spesso, strafare e stradire. Non solo nell’abbigliamento (dove l’esibizione di nudità non è meno goffa e banalizzata delle vistosità nel vestire). Anche nel comportamento e nel modo di esprimersi.

L’eleganza non è appariscente. Non è un accumulo di orpelli e di esibizionismi. È stile, consapevolezza, misura. Un’equilibrata mescolanza di istintivo buon gusto e di scelte precise, di cura della sostanza e minuziosa attenzione a ogni dettaglio.

L’eleganza è cortesia. È rispetto per gli altri, attenzione al modo in cui ciò che diciamo, facciamo o mostriamo può essere percepito. Non un formale galateo, non un cerimoniale ipocrita, non un banale e passivo adeguarsi al convenzionale, ma un più profondo sentimento di civiltà.

L’eleganza non è mielosa e sdolcinata. Si può essere civili con sincera cortesia – o, quando è necessario, con misurata durezza. L’eleganza non è falsa e bugiarda. Non è una crosta di apparenze che nasconde l’ambiguità e l’inganno.

L’eleganza è sobria – e la sobrietà è elegante. L’una e l’altra sono piacevoli, gradevoli, confortanti. Non solo più umane e funzionali, ma anche più belle. Possono essere, quando è il caso, seducenti – anche maliziose. C’è più fascino nella semplicità che in ogni sfacciata esibizione.

L’ironia è elegante, l’umorismo è gradevole, ma molta della comicità che ci circonda è grossolana, stupida, petulante e volgare (per non parlare dell’involontaria ridicolaggine di chi si prende troppo sul serio).

La sobrietà non è sacrificio, rinuncia, pauperismo. È la capacità di scegliere ciò che serve (anche da un punto di vista estetico) e ciò che invece non solo è inutile, ma spesso è ingombrante e fastidioso.

L’eleganza è saper sorridere, anche ridere, quando ce n’è un motivo – ma non perdersi in salamelecchi noiosi, ambigui e irritanti.

Una cosa scritta bene è elegante. Non solo quando è un’opera letteraria. Anche un biglietto del tram o un segnale stradale possono essere eleganti quando sono ben fatti, funzionali ed esteticamente gradevoli. Ogni piccolo dettaglio ben curato per la sua utilità e presentato in modo elegante può contribuire a rendere più gradevole l’ambiente in cui viviamo.

C’è chi pensa che l’eleganza sia un dono, un talento innato. In parte può essere vero. Ci sono persone che sanno muoversi, esprimersi, comunicare meglio di altre. Ma nessuno è condannato a essere volgare, ingombrante e fastidioso. E nessuno si può fidare solo dell’istinto. L’eleganza, la semplicità, la sobrietà sono arti che possiamo apprendere e coltivare. E vale la pena di farlo. Non solo per renderci più gradevoli agli altri, ma anche per sentirci meglio con noi stessi.

Stiamo vivendo in un’epoca che offre troppo spazio alla volgarità, all’esagerazione, all’ineleganza, al culto sviscerato e stupido delle apparenze. Il mito esagerato dell’abbondanza non è solo il rischio di soffrire quando se ne incontrano gli inevitabili limiti (chi potrebbe vivere bene con cinque vestiti soffre se ne ha venti, ma ne vorrebbe cinquanta – e lo stesso concetto si può applicare a qualsiasi altra cosa, materiale o immateriale). È anche la quotidiana sofferenza di dover cercare, subire, avere, esibire, vedere, toccare, maneggiare (e fingere di ammirare) un’infinità di ammenicoli e di ingombri fastidiosi quanto inutili.

Con una giusta dose di sobrietà, e un piacevole tocco di eleganza, possiamo non solo semplificarci la vita, ma anche renderla molto più gradevole (a noi e agli altri).

Si tratta anche, ovviamente, del modo di esprimersi. Proviamo, quando parliamo o scriviamo, a evitare i manierismi e le frasi fatte. A usare qualche parola in meno. A trovare un’espressione chiara al posto di un termine gergale o inutilmente astruso. A cercare una costruzione semplice, pulita ed efficace. Saremo più sobri e più eleganti. E avremo molte più probabilità di essere ascoltati e capiti.